Filippo Ramondino

 

I CARMELITANI A MONTELEONE

 

Il 30 ottobre 2013, per ricordare i 150 anni della inaugurazione dell’attuale chiesa del Carmine in Vibo Valentia, su iniziativa del parroco don Bruno Cannatelli e dei fedeli, alla presenza del Vescovo Mons. Luigi Renzo, sono state benedette sei nuove tele dell’artista Yuriy Kuku. Nell’occasione mons. Filippo Ramondino ha tenuto la relazione di cui riportiamo il testo.

 

Premessa

Non da artista, ma da archivista, questa sera, cercherò di abbozzare tre quadri o, meglio, se vogliamo, un trittico sulla storia dei Carmelitani a Monteleone, certi che ogni storia, vicende, uomini e fatti, come diceva Benedetto Croce, mantengono sempre una loro contemporaneità, propagano le loro vibrazioni nell’ora presente. E noi dobbiamo saperle ascoltare, interpretare, ricordare.

Vi parlerò, dunque, nei limiti di tempo consentito, e vi ringrazio già per l’attenzione che vorrete darmi, seguendo questi tre sguardi, dentro un unico “racconto storico”:

1.I Carmelitani nella storia della Chiesa.

2. I Carmelitani nella storia di Monteleone.

3. L’eredità dei Carmelitani per la nostra storia.


Le FONTI essenziali a cui attingo e rinvio sono: CLAUDIO CATENA, Carmelitani, in Dizionario degli Istituti di Perfezione; ANSELMO COSIMO LEOPARDI, I Carmelitani in Calabria, Istituto Scienze Religiose, Palmi 1987; EMANUELE BOAGA, La presenza dei Carmelitani in Calabria e il Convento di S. Elia in Curinga, in Carmelus  XLII (1995);ELISA NOVI CHAVARRIA, Insediamenti e consistenza patrimoniale dei Carmelitani in Calabria e Puglia attraverso l’inchiesta Innocenziana, in  Ordini religiosi e società nel Mezzogiorno Moderno,  a cura di B. Pellegrini e F. Gaudioso, Congedo, Galatina 1987.Non trascuro ovviamente gli storici locali: GIOVANNI FIORE, GIUSEPPE BISOGNI, FRANCESCO ALBANESE, e, in particolare, l’Abate OTTAVIO ORTONA, parroco di San Michele, per la sua monografia intitolata La chiesa del Carmine in Monteleone di Calabria: Ricordi storico-artistici, pubblicata nella Strenna dell’Avvenire Vibonese nel 1887.  I documenti del nostro Archivio Storico Diocesano di Mileto confermano dati conosciuti e aggiungono, infine, qualcosa di inedito: Cart. Monteleone, fasc. chiese, fasc. convento, fasc. confraternite, fasc. ospedale, Acta Pastoralis Visitationis, ecc.. 

 

1. I Carmelitani nella storia della Chiesa

Nel secolo XII sul Monte Carmelo di Galilea si stabilì un gruppo di Crociati, ad essi si deve l’origine e lo sviluppo dell’ordine dei Carmelitani. Essi decisero, infatti, «ad esempio ed imitazione del santo e solitario uomo Elia Profeta, presso la fonte che di Elia porta il nome, abitare in alveari di piccole cellette, come api del Signore producendo dolcezza spirituale» (Giacomo di Vitry, Historia orientalis, c. LII). Era il tipo di vita monastica abituale in Oriente.

 

Qualche studioso, secondo una testimonianza del monaco greco Giovanni Foca del 1180, attribuisce la fondazione ad un sacerdote di nome Bertoldo di Calabria, ma , in verità, i Carmelitani non riconobbero a nessuno in particolare il titolo di fondatore, rimanendo fedeli al modello Elia, legati al Carmelo dall’episodio raccontato in 1 Re 18,20-45: quando Elia, dopo il sacrificio, dalla vetta del Carmelo, vide salire dal mare la nuvoletta in forma di palmo di mano umana che, coprendo a poco a poco il cielo, si trasformò in pioggia benefica per la terra bruciata dalla lunga siccità. Fin dal Medio Evo, la tradizione carmelitana ha visto in quella nuvoletta d’Elia una figura di Maria, che, tutta pura, s’innalza dal mare del peccato recando Cristo Gesù, la pioggia di grazia, sull’umanità assetata di salvezza.

 

La montagna biblica del Carmelo ha un fascino particolare e nella Sacra Scrittura (Isaia 35,2; Geremia 46,18; Cantico 7,6) diventa metafora significativa: arida nella stagione secca, nei mesi più belli è fertilissima, lussureggiante di verde, di fiori, per le naturali riserve di acqua favorite dal terreno calcareo.

 

Nazareth, la città della Madonna, non dista molto dal Carmelo. Su questo monte, presso la fonte d’Elia venne costruito, dai primi religiosi, un tempio a lei dedicato.

 

La Regola, improntata ad una vita austera e alla preghiera contemplativa, fu loro scritta verso il 1206 dall’allora Patriarca di Gerusalemme, Alberto, già Vescovo di Vercelli, che spesso si ritirava al Carmelo. Fu approvata dal papa Onorio III nel 1226. I Carmelitani fondarono ben presto diversi monasteri, soprattutto lungo il litorale del Libano e della Siria, ove si erano insediati i Crociati.

 

Quando i musulmani rioccupano la Terra Santa, che le spedizioni crociate avevano liberata, anche il Monte Carmelo sarà assalito nel 1291, con l’uccisione dei religiosi da parte dei musulmani. Così, dal principio del XIII secolo, i Carmelitani emigrarono verso l’Europa, donde essi provenivano.

 

Il passaggio dall’Oriente all’Occidente, per la maggior parte degli eremiti del Carmelo, non fu facile. Fu il momento più critico per l’esistenza dell’Ordine. Il Carmelo era tutt’altra cosa e l’ambiente ecclesiale in cui si inserivano non sempre si dimostrò accogliente e comprensivo.

 

Quando i Carmelitani eremiti vennero in Europa, trovarono i nuovi Ordini mendicanti dei Domenicani e dei Francescani. Caratteristiche di questi Ordini erano soprattutto la vita fraterna in comune, la povertà collettiva e la predicazione itinerante e mendicante, che li rendevano molto accetti alle masse popolari. Ben presto anche i Carmelitani capirono che dovevano adeguarsi a quel tenore di vita, mettendo da parte le sante tradizioni degli antichi padri legati ad una vita eremitica. Nel 1240 fu celebrato in Avles il primo Capitolo generale d’Occidente che elesse priore Alano il Bretone. Nel 1245 gli successe San Simone Stock, al quale si deve la fondazione dei conventi nei maggiori centri universitari, Cambridge, Oxford, Bologna, Parigi, per inserire la missione dei Carmelitani anche nel mondo della cultura. Papa Innocenzo IV approvò la “revisione” della Regola nel 1248.

 

Le case del Carmelitani furono dunque fondate nelle città e nei borghi, adottandole ad una vita più cenobitica aperta all’apostolato della predicazione e della confessione, un servizio simile a quello che rendevano in quel tempo alla Chiesa gli Ordini Mendicanti. Le presenze in Europa si moltiplicarono rapidamente. Alla fine del 1200 i Conventi Carmelitani saranno circa 150. Verso la metà del sec. XV si aggiunse un secondo ordine carmelitano femminile, e un terzo ordine carmelitano.

 

Nel secolo XVI in Spagna ebbe inizio quella importante riforma che passa sotto il nome di Riforma Teresiana, che darà inizio a un nuovo Ordine, quello dei Carmelitani Scalzi o decalceati. Santa Teresa d’Avila e San Giovanni della Croce ispirano una regola assai più austera di quella dei carmelitani mitigati o calzati che ebbe una notevole diffusione nel resto d’Europa. E’il 1593.

 

Ai carmelitani è legata la festa della Madonna del Carmine che si celebra ovunque con popolare solennità e partecipazione, soprattutto con la diffusione dello scapolare, che la tradizione vorrebbe concesso dalla Madonna stessa a San Simone Stock come segno di particolare protezione a coloro che lo indossano.

 

 

2. I Carmelitani nella storia di Monteleone, la loro chiesa e convento

 

Il 7 giugno 1321 a Montpellier i Carmelitani si riunirono per il Capitolo generale, in quell’incontro stabilirono, tra le altre cose, che la divisione dei conventi esistenti nell’Italia meridionale doveva avere come demarcazione il faro di Messina, quindi in citra farum, che comprendeva i conventi della provincia di Sicilia, e ultra farum che comprendeva quelli di Napoli e dintorni, denominata Provincia Apuliae. Il padre Fiore, che scrive a fine del XVII secolo, afferma: «Nulla di meno le più accertate notizie di questa Religione in Calabria ce le porta la fabbrica di Reggio, seguita l’anno 1428 per opera dell’arcivescovo Gaspare Colonna [altri sostengono che qui il Fiore sbaglia, poiché il convento di Corigliano sarebbe il più antico, in quanto sorto nel 1295]. Così dunque piantata la Religione Carmelitana in queste parti, perché tosto non ebbe Conventi da formarsene una sola Provincia, quindi avvenne, che di quei pochi Conventi, alcuni già fiorivano aggregati alla Sicilia, ed altri a Napoli, finché sopravvenuto Maestro Angiolo Emiliano, celebre per la santità della vita, ed accresciuta la Provincia con le fabbriche dei Conventi di Tropea, di Monteleone, del Pizzo, del Batticano, di Gerocarne, di Mileto, di Caridà, di Palmi, di Cosenza, di Mont’alto e d’altri, con le dovute facoltà l’eresse in Provincia distinta, ed egli vi restò Provincial perpetuo, e d’allora in poi, che fu circa il 1540, s’accrebbe questa Religione in ambedue le Calabrie non solo di Religiose fabbriche, ma di soggetti qualificati si’ nelle lettere, si’ ne’ governi, si’ nella santità della vita».

 

Nella nostra attuale Diocesi quindi c’erano conventi a Tropea, Capo Vaticano, Monteleone, Pizzo, Gerocarne, Mileto, Caridà, Palmi. Nel XVI secolo la città di Monteleone aveva raggiunto un ruolo di riferimento territoriale, religioso e sociale, tenuto in massimo conto dagli stessi vescovi diocesani. Leggiamo in una relazione ad Limina del 1603, scritta dal vescovo Marco Antonio del Tufo: «Tutta la Diocesi abbraccia più di centotrenta paesi, città e casali, tra cui vi è la città chiamata Monteleone, celeberrima in queste parti sia per la nobiltà degli abitanti, sia per i mercanti di tutta Italia che ivi dimorano. In essa vi sono nove monasteri, sette di uomini, cioè di S. Agostino, di S. Domenico, dei Carmelitani e di S. Francesco della Osservanza, dei Cappuccini, dei Conventuali e di San Francesco di Paola; e due di monache, cioè di S. Chiara, dove le monache vivono con molta osservanza, e di S. Maria Maddalena, volgarmente dette le Ripentite. Tutto il popolo di questa città si diporta bene ed è molto attaccato al culto divino». Circa 100 anni dopo troviamo l’esatta ubicazione di questi conventi nella cartina di Giuseppe Bisogni nel suo Hipponii seu Vibonis Valentiae, del 1710. Come abbiamo avuto modo di notare in altre conferenze, tra il 1280 e il 1904 a Monteleone operarono 17 istituzioni religiose, tra Conventi e Monasteri. A cominciare cioè dai Minori conventuali nel 1280 (chiesa del Rosario) a finire con i PP. Salesiani nel 1904.Non può essere trascurata dagli studiosi l’incidenza che ebbe questa presenza nello sviluppo culturale, sociale   e religioso sia della stessa città che dell’intera diocesi.

 

 Il Bisogni ci fa sapere che, dove oggi vediamo la chiesa del Carmine, nel XVI secolo c’era un’altra antica chiesa intitolata a San Sebastiano, curata dall’omonima confraternita, era venerata l’immagine del santo martire, dipinta dal siciliano Simone Comandia e in sacrestia la reliquia del teschio del martire San Crescenzio. Il vescovo di Mileto mons. Marcantonio del Tufo, zelante attuatore del Concilio di Trento, nel 1600 donò questa chiesa, che aveva visitato, come si riscontra negli atti visitali, nel 1586 (f.309), ai Padri Carmelitani, suam in Carmelitarum Ordine benevolentiam, desiderando che promuovessero una maggiore devozione alla Madre di Dio, e la città avanzasse nella fede mediante la loro predicazione, l’amministrazione dei sacramenti e la cura degli esercizi di pietà. Già i Rettori dell’Università di Monteleone, il 9 aprile 1595, in pubblico parlamento, avevano stabilito di sostenere la proposta del vescovo e permettere la costruzione di un convento vicino alla chiesa. Il 28 ottobre 1604, essendo papa Clemente VIII (1592-1605), il Cardinale Pinelli, protettore dell’Ordine, accettò la concessione della chiesa che dedicò a Maria del Monte Carmelo, ed accanto fece costruire il convento, affidando l’incarico al Provinciale di Calabria P.Andrea Caimani Ambra. Anche qui, quasi come i primi frati sul Carmelo presso la fonte detta di Elia, il convento sorse sulla strada che menava- scrive l’Ortona – alla gran fontana di Monteleone. 

Nel 1779 nella Provincia di Calabria si contavano 20 conventi con relative chiese. E’ probabile che convento e chiesa di Monteleone subirono forti danni da uno dei terremoti di metà 700, prima del “mortale” 1783, poiché dalle fonti carmelitane si apprende che «rasi al suolo (anche) chiesa e convento di Motta S.Demetrio si cercò di utilizzare i beni rustici appartenenti a quel convento per la ricostruzione del convento e della chiesa di Monteleone» (Leopardi), da parte di padre Domenico Trombì.

Il convento monteleonese doveva essere abbastanza idoneo e accogliente se, sia il 15 maggio 1633 e sia il 21 aprile 1720, fu sede di Capitoli Provinciali. Né fu soggetto alla costituzione di Innocenzo X del 1652 che sopprimeva i conventi con meno di cinque religiosi.  

Tra le sue mura, santi frati servirono la chiesa con lo studio, con la preghiera assidua, con la carità. Di tre di essi la storia dell’Ordine carmelitano ne tramanda edificante memoria: P.Pietro Zillo, morì a Monteleone nel 1641, era originario di Soriano, fu maestro di teologia e più volte priore, tanto umile quanto virtuoso. P. Domenico Angì, monteleonese, visse in continuo silenzio, solitudine e penitenza, fu maestro in teologia, vicario provinciale di Calabria nel 1647, trasferitosi a Napoli, morì nel 1655 contagiato dagli appestati che assisteva con eroica carità.  P. Francesco Petitti, monteleonese, fu provinciale, visitatore e commissario generale, si distinse per acuto ingegno e carismatica eloquenza.  

Dagli scritti dell’abate Ortona sappiamo che l’antica chiesa era originariamente ad una navata molto vasta, di palmi quaranta di larghezza e di 145 di lunghezza, sormontata da soffitto a cassettone e da volta sul presbiterio.  C’erano sei cappelle laterali e ad oriente l’altare maggiore completo di coro. La porta maggiore con colonne ed architrave di tufo guardava a ponente e su di essa era incisa la data 1630. A nord vi era una piccola porta, su cui era posto un alto rilievo di marmo bianco raffigurante la Vergine del Carmelo col Bambino e l’iscrizione: Sum mater et decor Carmeli. A.D. 1665. Sulla porta maggiore si alzava il campanile con tre campane, una di queste aveva la seguente iscrizione: Opus Giacinti Lo Gallo 1690.  Nella parte superiore della chiesa c’erano affreschi attribuiti a Francesco Zoda, amico di Luca Giordano. Emanuele Paparo, scrivendo la vita di Francesco Saverio Mergolo, attesta che di questo artista nella chiesa c’era un dipinto raffigurante la Trasfigurazione e un altro il Profeta Elia che alla presenza di Acab fa scendere il fuoco dal cielo, e lui stesso conservava i bozzetti. Tutt’oggi, restaurato, si ammira del Mergolo la bella tela rappresentante Elia, dipinta nel 1777. Altro interessante quadro è quello della Madonna del Carmine tra i santi Simone Stock e Teresa d’Avila che l’Ortona attribuiva a Sebastiano Conca, e che, oggi, il critico Giorgio Leone ritiene piuttosto opera della bottega dei pittori monteleonesi Rubino. 

Venne il terremoto del 5 febbraio 1783 che distrusse gran parte della Calabria Ulteriore, con danni enormi e numerose vittime.  Il territorio di Monteleone fu duramente provato, pensiamo la fine di Mileto, di Briatico, di Castelmonardo, dell’imponente convento domenicano di Soriano.  Il Governo borbonico l’anno successivo, per venire incontro alle popolazioni, decise di istituire un ente straordinario chiamato Cassa Sacra. Questo doveva reperire i fondi necessari per l’opera di ricostruzione attraverso i beni di tutti gli ordini religiosi, che pertanto venivano soppressi, mentre i beni delle chiese e dei luoghi pii venivano incamerati. Lo stesso papa Pio VII, considerata la gravità del momento, autorizzò a procedere «affine di accorrere con mezzi pronti ed efficaci al sollievo e ristoro di quella desolata provincia». Il dispaccio di abolizione fu firmato proprio a Monteleone dal duca Pignatelli il 15 maggio 1784.

Nel 1792 fu nominato vescovo di Mileto il padre oratoriano Enrico Capece Minutolo, che trovò una diocesi duramente segnata dalle calamità, il patrimonio ecclesiastico impoverito e smembrato, non solo dal disastroso terremoto, ma soprattutto, come fu giustamente osservato, da quella “seconda calamità” che fu la Cassa Sacra. Essa, in effetti, fin dall’inizio, a causa di una gestione irregolare, faziosa e dilapidatrice, si era presentata fallimentare come testimoniano atti di vendita e funzionamento di diverse istituzioni originariamente ecclesiastiche. Scrisse il Capialbi che mons. Minutolo si impegnò molto per essere ripristinati nel 1796 i monasteri, e i conventi della Calabria Ulteriore, che erano stati soppressi dopo del terremoto del 1783, e molto egli si adoperò presso il Re di Napoli «per lo scioglimento della così detta Cassa Sagra, onde i beni di quelli amministrati, e che non erano stati distratti furono ridonati agli antichi ecclesiastici possessori».

Il 21 aprile 1798 il marchese di Fuscaldo, Tommaso Spinelli, visitatore generale per la Calabria ultra, comunicava a Mons. Minutolo che «non potendo la scarsa rendita dei Carmelitani di Monteleone far sussistere una condegna famiglia religiosa se non di appena due, senza spirituale vantaggio di quella popolazione, sopprimeva il convento assegnando la sua rendita ai PP. Filippini ed ai PP. Basiliani, benemeriti per dottrina e santità, trattenendo annui ducati sessanta per il  mantenimento di un economo curato nella chiesa degli stesso Carmelitani, per comodo della popolazione ivi stanziata».

Il convento, come si lamentava “la sana gente di Monteleone” in una lettera inviata al vescovo nello stesso anno, era «occupato da Priore, un sacerdote ed un laico», sui quali, si legge, non c’era da fare molto affidamento.  In effetti il Ministro del Re raccomandava che il vescovo «abbia la cura di far distribuire separatamente in Monasteri di Osservanza i due enunciati religiosi, e di vegliare sulla loro condotta procurando di renderli esemplari e disciplinati» (Ortona, p.7).

 

Una ultima supplica al Re per la reintegrazione del Convento è del 1800, rivolta da fra Giuseppe Sestito Carmelitano, che era stato procuratore di questo convento. Ma non ebbe alcuna risposta (ASDM, Cart.Monteleone –Conventi, fasc.748)

 

 

3. L’eredità dei carmelitani a Monteleone

 

Il 1798 è l’ultimo anno della presenza dei Carmelitani a Monteleone e l’inizio di nuove vicende, le quali segneranno diversamente la chiesa e il convento, ma che manterranno però quanto di spirituale i frati carmelitani avevano seminato, forse come eredità più bella.

 

Dunque, abbiamo visto, proprietari dei beni sono ora i padri Filippini e Basiliani. La chiesa è affidata ad un economo da loro stipendiato. La scelta rientra, effettivamente, in una nuova organizzazione pastorale voluta dopo il terremoto.  Da una lettera scritta il 2 novembre 1798 al procuratore generale del regno, dall’arciprete Vincenzo Pelaggi, dal parroco dello Spirito Santo Pignatari e dal luogotenente can. Tommaso Capialbi, apprendiamo che :«Nel tempo della fu C.S. si vollero economie curate in tutte le parrocchie che avanzavano di mille anime, nel sistemare siffatte economie per questa città di Montelione, perché il numero degli abitanti era di circa settemila, ed in essa non ci sono più di quattro parrochi, vennero in pensiero che non convenisse d’aggiungere più di tre economi, si scelsero perciò le tre chiese di S. Francesco d’Assisi, di S. Crispino e del Carmine. Abbisognò quindi di dare all’economo di San Francesco la cura d’una porzione della Parrocchia di San Leoluca ed una parrocchia insieme di quella del Soccorso all’Economo di San Crispino e la cura di un ‘altra porzione  della porzione del Soccorso, giacché questa è la più numerosa ascendendo non meno che a 2600 anime; all’economo del Carmine la cura della porzione della Parrocchia di San Michele, nel cui ambito una tale chiesa è situata e della porzione sopra le mille anime della parrocchia dello Spirito Santo».

 

 Poi, essendo scomodissima questa divisione per il Carmine, si preferì aggiungere meglio una porzione della parrocchia del Soccorso anziché dello Spirito Santo. «In tempo poi della C.S. le chiese economali si stabilirono in chiese mere ausiliarie. Erano perciò gli Economi onninamente dipendenti da Parrochi. L’ambito della parrocchia non si alterò né punto né poco». Quale era il compito degli economi?  «Non avevano che d’istruire e di predicare nelle loro chiese, di portare il viatico e l’Estrema Unzione agli infermi, di benedire i cadaveri de defunti e le case nel Sabato santo, qualora però non avesse piaciuto di farlo al proprio parroco. Non potevano intrigarsi o nella celebrazione de matrimoni o nel battezzare o nel dare il precetto pasquale, non avevano in conseguenza né battistero, né libri parrocchiali».

 

 

Le cose andarono così fino all’inizio del decennio francese, nel 1808 la soppressione degli ordini religiosi, compresi Filippini e Basiliani, determinò una nuova prassi amministrativa con riferimento al parroco di San Michele. Nel 1815 il parroco di San Michele scriveva che fino a quel tempo la chiesa: «si mantenne sempre con venerazione e culto, e da devoti filiani s’eresse in detta chiesa una Congregazione sotto il titolo di detta S. Maria del Carmine, e la devozione era fervorosa. La passata occupazione militare dispose che la detta chiesa servisse di carcere per quelli briganti che si presentavano e di tutti gli altri (1810): da questi si donò la prima profanazione, che s’avverò il detto di Gesù Cristo, abitazione di ladri e d’omiccidiarj la Casa di Dio, la casa del culto e della devozione, dopo di questi seguiì detto luogo essere ancora carcere per li depositi militari, come tuttavia si mantiene. Può pensarsi da questo quanti ne furono li disordini, la detta Congregazione si dimise ed i Congregati lasciarono il santo esercizio di culto e devozione alla Vergine, ed i filiani di quel recinto perderono il bene spirituale e si raffreddò la cristiana devozione verso la Vergine che fervorosa si prestava ancora dagli altri fedeli sotto il bello e specioso titolo di S. Maria del Carmine».

 

 Così accoratamente, al rinsiendato Re di Napoli, il vecchio parroco supplicava «la rifazzione e reintegra di detta chiesa acciò grandemente risplenda la gloria dell’Altissimo, e s’avansi il vero e devoto culto al gran Dio degli Eserciti e la devozione alla Vergine».

 

Intanto, i padri filippini e i padri basiliani, proprietari del convento, per venire incontro alle richiese della popolazione di una nuova e più comoda sede per l’ospedale San Nicola de Poveri fondato nel 1563, trasferito, dopo il terremoto del 1783, presso il convento dei cappuccini, per «affetto di zelo, carità cristiana e bene pubblico» decisero di cederlo per la ricostruzione dell’ospedale, con atto notarile firmato il 30 luglio 1801. Si dovettero però attendere 34 anni per il “ravvivamento dell’Ospedale”, che avvenne sotto il sindaco Antonio Lombardo nel 1834.

 

L’antica chiesa del Carmine, ridotta veramente male dai capricci e dalle violenze del generale Manhes, era sostituita da una cappella nei paraggi, si trattava di una baracca-stalla offerta da un fedele, che l’economo del tempo aveva pian piano adattato a dignitoso luogo di culto. Così si continuò per 54 anni.

 

Il culto dunque era mantenuto vivo dall’economo e dalla Confraternita, che era nata verso il 1804 per volontà di alcuni fedeli del rione, per una ideale continuità con l’antica Congrega di San Sebastiano, e con lo scopo di provvedere al restauro della chiesa mal ridotta dal terremoto del 1783. Purtroppo le forze era molto deboli per questa impresa, né le vicende politiche del tempo permisero l’attuazione del progetto. Tant’è che lo spirito confraternale andò ad affievolirsi. Per quanto mi risulta, in verità, questa confraternita non aveva mai avuto una approvazione canonica e civile.  Nel 1915 il parroco Giuseppe Brasca autorizzava presso la chiesa filiale «l’erezione canonica della pia associazione o congrega sotto il titolo della Madonna del Carmine in conformità dello Statuto», approvato il 18 febbraio 1915 dalla Curia Vescovile.

 

Dal 1809 c’era un deposito di ducati 180 che la confraternita aveva ottenuto per la ristrutturazione della chiesa del Carmine, ma, col permesso e condizioni stabilite dalla Santa Sede, vennero utilizzati per il restauro della chiesa parrocchiale di S.Maria del Soccorso e per la costruzione della casa dei PP. Filippini che reggevano quella parrocchia.  Il culto continuava a mantenersi nella chiesetta baracca. Nel 1860 ci fu qualche screzio tra la confraternita e il parroco Ortona, il quale si riteneva “padrone” della chiesetta. Siamo però negli anni di ricostruzione dell’attuale tempio.

 

L’abate Ottavio Ortona, monteleonese, fu parroco di San Michele dal 1849 al 1902, anno della morte. Fu sacerdote molto attivo in campo pastorale e culturale. Egli aveva ammirato l’opera coraggiosa del marchese Enrico Gagliardi, il quale nel 1837 , con lodevole slancio e generosità, aveva riaperto al culto  la chiesa confraternale di S. Maria La Nova, di cui lui era stato rettore.  Ma – si chiedeva – chi poteva interessarsi della chiesa del Carmine? Divenuto parroco, seppe di un voto di 400 ducati alla Vergine del Carmelo da parte di una facoltosa famiglia monteleonese. Potevano essere sufficienti per iniziare i lavori, per il resto si affidava alla Provvidenza.  Danneggiata dal terremoto, manomessa dai francesi, abbandonata per quasi 50 anni, il lavoro era veramente notevole.  Ne parlò al noto concittadino architetto Giuseppe Santulli, proponendogli una sua idea, che consisteva nello staccare una parte dell’antico fabbricato, quindi rimpicciolendo il perimetro e formare un ovale, ispirandosi un po’ al tempio di San Francesco di Paola in Napoli. Fu così che il Santulli fece il disegno della chiesa, interno ed esterno, che oggi ammiriamo! Era una chiesa completamente nuova, una novità architettonica per Monteleone, di forma ovale, «che apparisce quasi incastonata in un tempio più vasto, e più antico, del quale sorgono in giro, per metà intatte, le larghe e robuste mura» (Ortona, p. 1). Sulla base di questo progetto, l’8 maggio 1849, don Ortona firmò il contratto.  Scrisse: «dopo molti anni e molti stenti, finalmente a 15 luglio 1864, con gioia universale, la nuova bellissima chiesa, con festa grandiosa, fu benedetta e aperta», come succursale della parrocchia di san Michele, a vantaggio spirituale del vicino Ospedale. La Vergine santissima ritornò processionalmente nella sua antica casa. In seguito, lo stesso parroco provvide al completamento del pavimento, degli stucchi interni, della sacristia e del frontespizio.  I due, già menzionati, quadri antichi, di pertinenza dell’antico tempio, furono restaurati e furono collocati nella nuova chiesa: il grande quadro della Madonna del Carmine, che anticamente stava in fondo al presbiterio, attribuito al Conca, e quello di Elia profeta, dipinto da Francesco Saverio Mergolo nel 1777.

 

Conclusione

 

Oggi, tra quadri antichi e quadri nuovi, possiamo veramente cantare col salmista, a lode di Dio, una generazione narra all’altra le Tue opere, racconta le Tue meraviglie! (sal 145,4) Cosi finisco questo mio racconto storico. Corroborati da questa pia memoria, chiediamo al Signore che questo nostro piccolo Carmelo vibonese, dono generoso dei nostri padri, sia anche per il nostro tempo inquieto, richiamo costante di santità, sia luogo di bellezza spirituale, come è il messaggio di queste nuove tele che l’adornano, sia un trono d’amore, alla Divina Madre, alla nostra Regina, alla Tutta Bella, fiore fragrante e fecondo del Carmelo.       

 

 

 

 


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