Filippo Ramondino

 

L’IDENTITA CRISTIANA

TRA INTEGRAZIONE E FANATISMO

 

Un confronto con l’Islam

 

Intervento all’Incontro con Magdi C.Allam

 organizzato dal Lions Club International Distretto 108 YA

Sala Convegni  501 Hotel -Vibo Valentia- 1° ottobre 2016

***

 

     Questo mio intervento è costituito solo da brevi e veloci considerazioni di natura prevalentemente teologica sul tema "L’identità cristiana tra integrazione e fanatismo…"

 

     Il concetto "identità cristiana" risponde essenzialmente alla domanda: in quale Dio io credo? E’ veramente quello di Gesù Cristo?  Avere un’idea sbagliata di Dio è il più grande disastro che possa capitare ad una religione e ad una civiltà, perché sarà  erronea  la vita religiosa e la civiltà. Il problema che Cristo pone alla religione e alla società del suo tempo è proprio sulla fede in Dio, in quale Dio credere. Ed è proprio sulla conflittualità del concetto di Dio che egli verrà condannato e ucciso.

 

    Il concetto "identità cristiana" risponde poi, conseguentemente, a quest’ altra domanda: quale virtù di religione vivo, virtù che si attua nel culto e nella morale, e che mi rende giusto davanti a Dio?

 

    Non tocchiamo, ovviamente, qui il tema “normalità e patologia della religiosità”, l’immaturità religiosa e le psicopatologie religiose, che creano un’identità lacerata e immatura.

 

     L’esperienza della fede cristiana  non  trova essenzialmente fondamento in un libro o in una dottrina, ma nell’incontro con una persona, che è Parola fatta carne, comunicazione definitiva di Dio con noi: Gesù Cristo. Il danese Soren Kierkegaard, filosofo e teologo luterano,  sosteneva che il cristianesimo non è essenzialmente una dottrina ma una comunicazione di esistenza.

 

     La venuta di Dio nella storia, in Cristo, non va considerato come un grande evento tra gli altri,  ma come l’ultimo e definitivo evento che cambia la storia, che rivoluziona il volto dell’uomo e del mondo. Per questo la neutralità non è possibile.

 

     Scrive mons. Luigi  Negri: «L’identità non si recupera fuori da un’autentica esperienza ecclesiale e, soprattutto, non si recupera  se l’esperienza ecclesiale non diventa capacità di educazione, che mostra e dimostra che Cristo è la Verità, che Cristo è la Carità, che Cristo è l’unica ragione del vivere e dell’esistere perché è il contenuto della nostra missione» (Il cammino della Chiesa, 2015, p. 13).

 

     Perché Cristo? Perché, per l’identità cristiana, in lui c’è la verità sull’uomo, e il senso della nostra libertà. Verità e libertà sono interdipendenti: la verità vi farà liberi.  Essa è la porta, dice papa Benedetto XVI, attraverso cui si deve passare per essere liberi nel senso più pieno del termine.

 

     Il segno della divina regalità di Cristo davanti a Pilato è la testimonianza alla verità. Anche Pilato chiederà a Gesù: «Tu sei re?». Gesù risponde: «Il mio Regno non è di questo mondo»! (Gv 18, 33-36) Il mondo infatti non è la realtà, ma è nella realtà: molta realtà sfugge ai nostri occhi e alla nostra stessa ragione. Gesù fa capire a Pilato che c’è un potere più grande, una dimensione ancora più grande Il dialogo tra Pilato e Cristo apre una visione del mondo del tutto nuova… «Sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce» (Gv 18,37) !

 

     «Nessuna ragione di Stato (neppure quella di raggiungere il potere per gestirlo diversamente) giustifica il venir meno di fronte alle esigenze della verità» (B.Maggioni,Vangelo, Chiesa e Politica, 2011). Anche a costo della croce!

 

     Stat crux dum volvitur orbis,  ci ricordano i certosini. Per il cristiano c’è questa realtà: la sequela della croce, che accetta la debolezza dell’amore, della solidarietà, che diventa via di risurrezione. Entriamo così nell’eccedenza evangelica, in quella nuova cristica giustizia che si realizza in un nuovo modo di regolare le relazioni e i rapporti. Non la logica del do ut des, nè dello ius talionis, ma una eccedenza, una gratuità sconfinata che va, dunque, oltre  lo stesso criterio di reciprocità: il perdono, il farsi servo, il compatire. Gesù, con sano realismo, non esclude dalla storicità quotidiana il diverso, il nemico, il persecutore, ma anche verso costoro suggerisce atteggiamenti positivi e propositivi da assumere: amare, far del bene, benedire e pregare. Questo è il nostro Dio! L’identità cristiana della relazionalità con l’altro, che persino mi è ostile, viene a configurarsi con l’offrire l’altra guancia, non rifiutare la tunica, prestare anche a chi non restituisce, un modo cioè del tutto nuovo e rivoluzionario, se vogliamo, paradossale, di costruire i rapporti.

 

     «Amare chi ci ama e prestare a chi ci restituisce è l’onestà dei peccatori» (cf Maggioni, cit.,p. 66), degli uomini comuni, ma non del discepolo di Cristo. Il criterio che identifica il discepolo di Cristo è il comportamento del Padre che «è benevolo anche verso gli ingrati e i malvagi».

 

     Tutto il cristianesimo si regge sull’inaudito fatto del perdono: rimetti a noi i nostri debiti… Dio ci perdona in Cristo.  Redenzione, liberazione, misericordia.  Solo con questo tipo d’amore si giustifica il cristianesimo, poi viene l’attenzione ai poveri, l’impegno sociale, ecc. Ma è vero pure che questo cuore, mentre è perentoriamente chiamato a perdonare, deve, nello stesso tempo, per fare la carità nella verità, combattere l’errore, contestare, denunciare, disapprovare, discernere, senza giustiziare, tra il grano e la gramigna… e l’errore non è sempre distaccato dall’errante, proprio perché l’errore non è solo pura teoria o astrazione, e quindi chi semina errori è pericoloso; ostacolare questo suo operato significa cristianamente volere anche il suo bene. In una parola, il cristiano come Ciristo è chiamato ad essere anche pietra d’inciampo (cf 1 Pt 2,7-9) !

 

     E’ indifferibile, oggi, un confronto religioso e teologico con la realtà islamica. In un’intervista del 1994 Giovanni Paolo II brevemente chiarisce le differenze sostanziali tra l’identità cristiana e quella musulmana:

 

     «Chiunque, conoscendo l’AT e il NT, legga il Corano, vede con chiarezza il processo della Divina Rivelazione che in esso s’è compiuto. E’ impossibile non notare l’allontanamento da ciò che Dio ha detto di Se stesso, prima nell’AT per mezzo dei profeti, e poi in modo definitivo nel NT per mezzo del Suo Figlio. Tutta questa ricchezza dell’autorivelazione di Dio, che costituisce il patrimonio dell’AT e del NT, nell’islamismo è stata di fatto accantonata.

 

     Al Dio del Corano vengono dati nomi tra i più belli conosciuti dal linguaggio umano, ma in definitiva è un Dio al di fuori del mondo, un Dio che è soltanto Maestà, mai Emmanuele, Dio con noi. L’Islamismo non è una religione di redenzione. Non vi è spazio in esso per la Croce e la Risurrezione. Viene menzionato Gesù, ma solo come profeta in preparazione dell’ultimo profeta, Maometto. E’ ricordata anche Maria, sua Madre verginale, ma è completamente assente il dramma della redenzione. Perciò non soltanto la teologia, ma anche l’antropologia dell’Islam è molto distante da quella cristiana».

 

     Nella galassia musulmana, con la sua nebulosa fondamentalista, esiste e resiste prevalentemente un’educazione religiosa e sociale che difende dalla modernità imponendo la sharia  come l’unica soluzione ai problemi del mondo, che non conosce la nozione di pluralismo, che non accetta il valore della libertà religiosa, che non ha vissuto quel processo di secolarizzazione che, a partire dall’illuminismo,  il cristianesimo ha affrontato uscendone purificato e maggiormente motivato.

 

     La sfida ci dice che è tempo di recuperare un forte senso  di quello che rende i cattolici differenti, il senso della differenza cattolica,  una versione teologica di quella che in sociologia viene chiamata politica dell’identità: non conformismo, resistenza, opposizione a quel mondo per il quale neanche Cristo prega. Vigilate e state pronti, vigilate e pregate, ci dice Gesù. Certo, Non habemus hic manentem civitatem: non abbiamo quaggiù la nostra dimora eterna. Nel mondo, ma non del mondo, chiamati ogni giorno a questo difficile, ma meraviglioso equilibrio fra una reale incarnazione nella storia e l’indispensabile tensione verso l’eternità.

 

     E’ l’incarnazione di Dio che offre il senso cristiano della persona. Un’incarnazione che postula la trasformazione anche sociale mediante la nostra carne di cristiani. Gesù ha voluto non  sacralizzare,  separare cioè il sacro dal profano,  ma sacramentalizzare,  cioè fare degli uomini recettori dei sacramenti, un segno efficace del suo amore e della sua verità. I sacramenti inverano il sacro.

 

     Noi cristiani abbiamo una misura alta, un collaudato parametro di giudizio che ci permette di guardare ogni uomo, buono o cattivo,  come persona, singolarmente presa, nella sua unicità e irripetibilità, e non come il dente di un pettine che rende tutti uguali, dentro l’assolutismo e il totalitarismo della comunità.  

 

     Non c’è l’homo islamicus, come non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero,  ne uomo né donna, ma tutti siamo uno in Cristo Gesù, nella legge dell’Amore, dice l’apostolo Paolo (Gal 9,28). Questa novità di vita esclude categoricamente: difetti, imperfezioni, ostinazioni dell’uomo vecchio che generano divisioni, sopraffazioni, violenze, ecc. quindi quanto è contrario alla Civiltà dell’amore.

 

     La convivenza multirazziale, multiculturale, multireligiosa, non deve portare necessariamente alla perdita della propria identità, ma può trasformarsi in un’opportunità di crescita e di maturazione pienamente umana, en Xristos, l’uomo perfetto. Ma di questo dobbiamo essere convinti e fautori anzitutto noi cristiani, chiamati ad essere creatori di civiltà, del nuovo umanesimo, che può avvenire solo mediante la vita buona del vangelo rivelataci dal Dio umanato. Qui si pone la sfida interna tra essere missionari o dimissionari!  Recentemente papa Francesco parlando ai nuovi vescovi (settembre 2016), ha detto:

« Bisogna che la misericordia formi e informi le strutture pastorali delle nostre chiese. Non si tratta di abbassare le esigenze o svendere a buon mercato la nostra perla. Anzi, la sola condizione che la perla preziosa pone a coloro che la trovano è quella di non poter reclamare meno del tutto; la sua unica pretesa è suscitare nel cuore di chi la trova il bisogno di rischiarsi per intero pur di averla».

 

     Quanto fin qui considerato è, possiamo dire,  il dato teologico o cristologico. Quello però antropologico e sociologico ci rivela di fatto una crisi della identità cristiana, perché drasticamente indebolita la virtù di religione, la quale, per quanto distorta e ambigua, è  fortemente presente nell’Islam. Lo stesso Giovanni Paolo II osservava: « Tutta la religiosità dei musulmani merita rispetto. Non si può non ammirare, per esempio, la loro fedeltà alla preghiera. L’immagine del credente in Allah che, senza badare al tempo e al luogo, cade in ginocchio e si immerge nella preghiera, rimane un modello per i confessori del vero Dio, in particolare per quei cristiani che, disertando le loro meravigliose cattedrali, pregano poco o non pregano per  niente».

 

     Ha detto Baget Bozzo, diversi anni fa: «La decadenza del Cattolicesimo nei cattolici spiega il fatto che tra i cattolici l’offesa fatta ai cattolici non susciti un sentimento di identificazione. In realtà il Cattolicesimo come definizione di una identità sembra diventare sempre più raro» (Il futuro del cattolicesimo, 1997, p.202). Essenzialmente perché  preghiamo e meditiamo poco. Noi occidentali abbiamo perso l’anima. Facciamo molta fatica a credere di avere un’origine divina. Quindi non ci stimiamo, non amiamo veramente l’umanità di cui siamo composti, siamo spezzati, lacerati, schizofrenici socialmente. Il cristianesimo non è perversione della ragione, ma conversione della ragione (metanoia). Ci sono, per esempio, categorie religiose come fedeltà o infedeltà a Dio o ad Allah che l’occidente non comprende più. Benedetto XVI ha parlato di un odio di sé dell’Occidente, una patologia culturale in atto, perché malata l’anima-animus.

 

     Il dramma nostro, anche all’interno del cattolicesimo, è che confondiamo i fondamentali con i fondamentalismi, i principi con le opinioni, l’integrazione con il minestrone! Si avverte una grande confusione e un crescente disorientamento.

 

     Tempo verrà, sosteneva Chesterton, in cui noi dovremo salire sui monti a fare resistenza per affermare che gli alberi in primavera sono verdi e in estate danno frutti. Noi, forti delle nostre radici greco-romane e giudeo-cristiane, dobbiamo leggere i segni dei tempi con la recta ratio e l’intelligenza evangelica, convinti che quando il fango avanza è necessario farsi pietra per indicare agli altri la strada: Cristo, non sul fango, ma sulla pietra edifica la sua Chiesa: super hanc petram aedificabo ecclesiam meam !.

 

     Qualcuno dice che il fondamentalismo islamico sorge per proteggere la comunità islamica dal nichilismo occidentale, quella cultura del niente che ha liquidato il primato della persona, conducendo all’individualismo, all’indifferentismo, al nichilismo. Che cos’è in fondo questo nichilismo? E’ l’atteggiamento di chi non vuole prendere in considerazione quelle cause che riguardano quel bene  che non è solamente economico  e materiale.

 

     Fanatismi e fondamentalismi avanzano, scivolando velocemente sul nostro pensiero liquido, sul liquame delle nostre pseudo culture, le nostre cadute di stile, i nostri complessi di inferiorità o di superiorità, ecc., avanzano sulla nostra povertà di verità, sul cultura del niente. L’uso della nostra libertà può fare a meno della verità? Il sistema dittatoriale del relativismo afferma di si! Bisogna rifiutare la verità oggettiva, cioè la verità indipendente dall’epoca, dalla cultura, valida ovunque, e per tutti questo è diventato opinione comune.

 

     La bussola e lo specchio dell’identità cristiana resta esclusivamente il Vangelo di Cristo. Ora, non si tratta di adattare il vangelo alle nuove situazioni, ma di ripensare il vangelo all’interno di queste nuove situazioni. La grammatica del vangelo diventa metodo e didattica di cambiamento. Anche Napoleone diceva, con tutto il suo illuminismo, che «non si può governare un popolo che non crede in Dio; lo si può mitragliare»…oggi, noi, diremmo meglio, lo si può evangelizzare, perché giunga alla grazia della conversione.

 

     Gli ultimi pontefici, pur considerando e sottolineando i limiti teologici ed etici dell’islamismo, alla luce di quanto detto dal Concilio nella Nostra aetate n. 3,  confermano l’immutabile apertura al dialogo e alla collaborazione.  Dialogo, diceva Paolo VI,  che si innesta nel dialogo della salvezza aperto spontaneamente dalla iniziativa divina (Ecclesiam Suam, 42).Quindi un dialogo interreligioso alla luce dell’economia salvifica di Cristo, e non l’economia salvifica alla luce di un dialogo interreligioso.  In fondo, Gesù ci ha detto non di “dialogare” sul Vangelo o col Vangelo, ma di annunciare il Vangelo, che è compito statutario di ogni battezzato: far conoscere Gesù, il quale, ricordava il card. Biffi, ci ha esortato a predicare il Vangelo  ad ogni creatura, e non ha aggiunto: tranne ai musulmani, gli ebrei e il Dalai Lama.

 

     Chiudo con due testimonianze o, se volete, con due scene che possono apparire contrastanti, ma ugualmente provocanti per la nostra riflessione.

 

     La prima risale al 1999, quando intervenne al sinodo dei vescovi europei mons. Giuseppe Germano Bernardini, francescano modenese  di 73 anni, vescovo da 18 anni a Smirne (Turchia). Riportava le parole di un autorevole personaggio musulmano: grazie alle vostre leggi democratiche vi invaderemo, grazie alle vostre leggi religiose vi domineremo, … e ancora voi non avete nulla da insegnarci e noi non abbiamo nulla da imparare da voi. Diceva poi, ai padri sinodali, che i petrodollari vengono impegnati non per creare lavoro nei Paesi poveri, ma per costruire moschee e centri culturali nei Paesi cristiani… e esortava a non cedere le nostre chiese ai loro culti, perché questo ai loro occhi è la prova più certa della nostra apostasia. Divieto disposto in Italia,  tra l’altro, già dalla CEI nel 1993 .

 

     La seconda testimonianza è del noto giornalista cattolico Vittorio Messori che, qualche anno fa, scrisse, quasi come una battuta: mi capita di sostare davanti ad una scuola dove gli immigrati formalmente “islamici” sono numerosi. Tutte le ragazzine – musulmane comprese – sono uscite con i jeans a vita bassa, con in vista l’ombelico e una porzione abbondante di ventre…poi in pizzeria, ecco i gruppi di giovani chiaramente magrebini: sto attento alle loro scelte, constato che sono molti quelli che la pizza la vogliono al prosciutto. O al salame piccante o al wurstel.  Il riserbo geloso del corpo delle donne, l’alcool, il maiale. L’Islam è un legalismo che si basa anche, se non soprattutto, sui tabù, i divieti, i precetti, le tradizioni. Mi confermo in un sospetto: non occorreranno nuove Poitiers o Lepanto per fermare le verdi bandiere del profeta. Basteranno le mode, gli usi, i menu dell’Occidente.

 

     L’alternativa è tanto provocante quanto inquietante: la presento con due immagini: sembra che dobbiamo scegliere di far entrare nella nostra Gerusalemme o l’asino che il Cristo scioglie e sceglie come sua cavalcatura oppure il cavallo di Troia che, «così mosso e tirato, agevolmente la macchina fatale il muro ascende… ciechi e sordi che fummo, i nostri danni ci procurammo»,  come canta  Virgilio nell’Eneide.

 

     La provocazione e il dibattito sull’identità cristiana forse ci rinviano ad un più proprio, cioè a quella identità che si identifica con autenticità, dove l’identico non è l’uguale, e dove la differenza , come elemento costitutivo dell’identità, rende possibile l’autenticità e l’inautenticità di una cosa e, quindi, nel risvolto antropologico ed esistenziale, «la condizione di possibilità per l’alternativa di una vita autentica e di una vita inautentica» (cf Armando Rigobello, Autenticità nella differenza, 1989, p. 19).

 

 

 

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