IL MISTERO:

Cristo Sposo


ABBIAMO ESAURITO IL MISTERO?

 

   È da stolti pensare che la nostra intelligenza, di fronte al Mistero grande e inesauribile di Cristo, si possa per qualche ragione, sentire certa di aver esaurito tutto ciò che c'era da sapere sulla profondità dei significati contenuti in questo Mistero. Ancora peggio sarebbe se il Mistero di Cristo venisse letto e compreso alla luce di una cultura, che non è più illuminata dalla fede, come è la nostra. Una cultura che vorrebbe “addomesticare” il Mistero per farlo entrare nelle sue categorie ermeneutiche: ancora una volta non è il Mistero a educare la cultura, ma la cultura che pretenderebbe di dare al Mistero la sua forma. Forse saremo così superbi da avere il coraggio di dire all’Autore del Mistero, pensando di averne il potere e con tono autoritario, insieme a Pietro: “questo non ti accadrà mai” (Mt 16,22) oppure “questo non è parte di te”?

   Questa premessa, che sembrerebbe avere toni polemici, e forse un po’ li contiene, nasce da una inquietudine, che sorge dentro di me ogni qualvolta mi trovo in situazioni simili a quelle, sopradescritte; di chi, con una certa sicurezza e con moltissimo coraggio, a mio avviso, dice di Cristo: “è tutto qui!”.

   Il discorso che ho intavolato vorrebbe portare una piccola riflessione sul meraviglioso Mistero della morte e resurrezione di Cristo e in particolare in riferimento al contenuto salvifico della sua morte-sepoltura.

   Viviamo in un territorio, quello calabrese, che in passato ha avuto modo di sperimentare grandi sofferenze dovute alle guerre, ai terremoti, e alla grande povertà di questa porzione di Italia molto legata alla fede e alla religione. La povera gente che un tempo si accostava alle celebrazioni liturgiche, meditava gli eventi della vita di Cristo e ascoltava le prediche appassionate dei suoi pastori, ha avuto la straordinaria capacità di lasciarsi ispirare, tanto da sentire che la vita di Cristo diveniva piano piano vita vissuta e praticata nella fatica del proprio quotidiano.

     È il caso di ricordare le autentiche e belle tradizioni popolari, nate grazie a questa bella ispirazione. Tuttavia, come ogni ispirazione, quando non è saggiata da un attento discernimento, può portare in sé un grande tradimento rispetto a ciò che l’ha ispirata: così ciò che ci ispira diventa per noi soltanto uno strumento di espressione di noi stessi, del nostro vissuto, funzionale alla nostra esigenza di esprimerci.

È il caso della passione e morte di Gesù che ha sempre esercitato un grande fascino nel popolo di Dio, e che in certi casi, ha generato un sottile e alle volte grande tradimento, nella comprensione del Mistero stesso della morte di Cristo.

 

 

IL MISTERO CUSTODITO NELLA CHIESA

 

     Dalla Tradizione della Chiesa, come dalla Scrittura e dai Padri, noi conosciamo questo momento, culmine dell’esistenza umana di Cristo, come manifestazione della Gloria di Dio, del suo grande e folle amore per gli uomini, tanto da spingere l’autore della vita, a vestirsi della morte. Questo interpella gli uomini sulla grave responsabilità, dell’accoglienza di questo grande Mistero, da cui dipende la nostra salvezza.

     L’esperienza della morte dell’uomo, diviene esperienza della morte di Dio”, ma cambia totalmente di prospettiva: se la prima morte è disfacimento, disperazione, e fine di una esistenza commiserevole, la morte di Dio è annuncio di rinascita, promessa di vita nuova, attesa silente e contemplante, della promessa fatta agli uomini. Non è un caso che Giovanni, ad esempio, nel suo Vangelo non faccia menzione del dolore di Maria, o di una sua corsa dolorosa al sepolcro, eppure più di tutti, è stato testimone dell’evento. All’evangelista non interessa evidenziare il dolore disperato di una madre che perde il figlio, o la decadenza ed il fallimento umani, di un uomo che muore; invece, interessa sottolinearne l’attesa fedele dello “stavano sotto la croce” (Gv 19,25), lo “stare nella morte” contemplativo di un’umanità, che aspetta e sopporta pazientemente, custodendo nel cuore però la speranza nella promessa di vita e di resurrezione. Maria diventa così un vero è proprio modello teologico, che ci dice come dovrebbe essere vista e vissuta la morte in prospettiva cristiana.

     Già nella nascita di Gesù è prefigurato l’annunzio della sua morte: quando la Vergine lo avvolse in fasce e lo depose in un luogo destinato al nutrimento di animali. I Padri, che ben sapevano penetrarne il Mistero, lessero in questo gesto ed in questi segni una anticipazione del destino di quel bimbo, che sarebbe stato trattenuto nel grembo della morte (il sepolcro), e sarebbe stato il nutrimento delle genti (il pane eucaristico), così che mangiatoia e sepolcro (altrimenti detto sarcofago = mangiatore di carne) e fasce della nascita e lenzuoli funebri, sono letti specularmente, mettendo insieme e accrescendo la intelligibilità del Mistero. È una ricchezza, che non sarebbe conosciuta se si adottasse una scelta contrappositiva dei vari “quadri” biblici e della vita di Gesù.

     Il riferimento eucaristico della mangiatoia dice poi il proseguo della vita, che continua in coloro che usufruiscono e si nutrono di ciò che nella mangiatoia è deposto, quindi di una morte (le fasce e la mangiatoia/sepolcro) che è foriera di vita (mangiatoia come luogo del nutrimento): la morte di Cristo vivifica!

 

 

SENTIRE, PARLARE, ADORARE IL MISTERO

 

      Il sentimento popolare deviato di ieri e di oggi, invece, rischia di vedere e proiettare nella morte di Cristo, il grande fallimento della propria esistenza individuale, piuttosto che il dolore disperato del proprio vissuto, esasperandolo e sacralizzandolo, fissandosi così, in una poco evangelica condizione di autocommiserazione o di auto godimento nella sofferenza. È il caso delle manifestazioni esteriori esasperate del Venerdì Santo di alcuni paesi, da molti pastori accorti decisamente limitate, da altri, legati più al pietismo popolare che ad una sincera pietà, mantenute e caldeggiate, ignorando così le direttive dei vescovi nel disciplinamento di queste ultime. La morte percepita dal “mondo” (in senso paolino) come esperienza puramente umana, viene proiettata sulla morte di Gesù, che viene orizzontalizzata nella sua lettura, e privata di ogni prospettiva salvifica, ridotta semplicemente alla morte tragica di un povero uomo buono. Nulla di meno evangelico in questa lettura aberrante, che mina allo stesso Mistero della morte e della Persona di Cristo e che ci porta a vedere i suoi simboli (la croce, il sudario, i chiodi ecc..), come simboli di morte e non di vita, cadendo così nell’inganno.

      Per quanto in sé stessi veicolino la morte, una croce, un sudario, dei chiodi, divengono segni intrisi di vita se sono quelli di Cristo: così che la croce, il sudario, e i chiodi divengono degni di contemplazione e motivo di gioia per chi crede. Ecco che così l’intera vita di Cristo, nei suoi segni, nelle sue parole nei suoi gesti, entra nella celebrazione della Chiesa, dalla primitiva comunità dei discepoli a noi, divenendo liturgia: ogni utensile, ogni abito, ogni elemento è segno di una realtà vissuta, operata da Cristo per la nostra salvezza.

     È necessario vigilare perché il nostro linguaggio, i nostri modi di dire, non  manifestino alcune insidiose affermazioni, che si sentono spesso tra alcuni credenti, facenti riferimento  alla scelta delle “immagini di luce” ( Cristo risorto, Gesù in trono, Cristo Pantocratore o Gesù bambino ecc..) preferite alle “immagini di tenebra” (Cristo crocifisso, Cristo disteso nel sepolcro, Cristo che porta la croce ecc..), quasi come se queste immagini non avessero comunque in se stesse solo e soltanto luce, sia le une che le altre; anzi, diciamolo: Cristo è entrato nella sua gloria proprio attraverso quelle che, certuni credenti, reputano subdolamente, condiscendenti alla mentalità anticristiana del mondo,  inopportune immagini lugubri e tenebrose. Forse perché, scandalizzati dal fatto che sulla natura umana di Cristo, siano impressi i segni delle nostre tenebre delle nostre ferite e che forse si vorrebbero esorcizzare, ma che per il cristiano, dovrebbero essere specchio dell’amore folle e ardente di Dio, che le riveste per salvarci, quindi splendenti più dei luminari del cielo.

      Il disagio di porre il crocifisso piuttosto che il Cristo “dormiente” ( o Nynphios, come lo si percepisce nella spiritualità orientale, talvolta più penetrante di noi quanto alla lettura popolare del Mistero) su un tabernacolo, come se dicessimo che questo divenga con questi segni sovraimpressi, una tomba o un urna di morte o un tavolo funerario mortifero, facendo diventare cosi i segni della nostra salvezza (croce, e sudario), simboli di sola morte, staccati dal Mistero unico di Cristo morto e risorto, ci farebbero giungere cosi ad un problema di fede vero e proprio e non solo pastorale, che vede nella nostra affermazione, un’idea di Gesù e della sua morte, molto umanizzata e osservata da una sola prospettiva: quella orizzontale.

     Si entra così in una logica esclusionista e non inclusivista del Mistero, attraverso la quale si legge, ad esempio, l’altare solo come segno della persona di Cristo o come prototipo dell’altare celeste o come il suo corpo glorioso (immagini di luce), e non come la roccia del calvario, sulla quale venne elevato il suo corpo trafitto o la tavola di pietra della sua tomba, che accolse il suo corpo esanime, o lo stesso suo corpo seminato in terra nella morte, ma che porta in se la vita e che diviene pietra e fondamento della vita della Chiesa (considerate immagini di tenebra). Così come vedrebbe il tabernacolo solo come prototipo dell’Arca della Alleanza splendente di luce, o come il grembo santo di Maria che accolse il Verbo di Dio e non magari come il sepolcro di Cristo, che quindi custodisce Dio, che per amore degli uomini si è fatto seppellire nelle profondità della terra (segno della nostra umanità peccatrice) ma che proprio di lì, fa esplodere di nuovo la vita, che di lì, risolleva la nostra condizione. Quindi una mentalità ermeneutica che contrappone alcuni aspetti ad altri e che è incapace di leggerli insieme, come un'unica realtà poliedrica: perché, l’Arca dell’Alleanza splendente di luce, è il corpo trafitto di Cristo nel sepolcro e anche il grembo di Maria che custodisce il Verbo; perché l’altare, è il corpo di Cristo inchiodato sulla croce, ma anche la sua stessa Persona e anche la pietra che lo accolse nel sepolcro e che vide la sua Resurrezione.  La logica esclusivista “dell’aut aut”, ha sempre preferito qualcosa di vero a discapito di qualche altra cosa di vero, ha sempre operato una scelta nelle verità di fede e questa scelta (airésis), non ha mai manifestato la verità, mai!

 

 

PENETRARE IL MISTERO

 

     La portata ed il peso del mistero sono commisurati alla portata e al peso di colui che lo manifesta: il Mistero di Cristo è dunque infinito quanto il suo Essere, semplicemente perché, il Mistero è Cristo stesso. È perciò pericolosissimo dire da noi stessi: “nel Mistero questo c’entra, questo no…” solo perché ancora non abbiamo, per Grazia, potuto contemplarlo né conoscerlo da quell’aspetto particolare. Il Mistero di Cristo non sta nelle nostre tasche, ne è rinchiuso in dei libri che, tuttalpiù, ne balbettano una piccola parte. Preferibile è una ermeneutica inclusivista che si pone davanti al Mistero con ascolto e apertura, in adorazione, con l’atteggiamento del discepolo che tende l’orecchio e semmai balbetta agli altri ciò che ha sentito dire e ha visto dall’unico grande Mistagogo. Il sentire dei cristiani di oggi, forse, si sta troppo umanizzando nel senso più basso del termine: non è più una umanità che si lascia abitare da Dio, ma è una umanità che è ripiegata su sé stessa, in una visione orizzontale, monoprospettica, resa incapace di leggere le profondità del Mistero, cercando anzi di incastrarlo nelle sue categorie.

     Molti cristiani di oggi, sono incapaci di ascoltare, perché distratti dalla confusione del mondo, con il rischio quindi di non riuscire più a vedere nell’umanità di Gesù, tutto il peso della sua divinità, resi incapaci di “inserire le mani” nei segni dei chiodi e del costato aperto, che sembrano “tenebrose”, perché ci dicono solo dolore e quindi non essere capaci di dire più con Tommaso: “mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28).

    Alla luce di queste riflessioni, credo si sia capito come il contenuto delle stesse, miri a riflettere sulla morte di Cristo, come porta della resurrezione e non come esperienza definitiva di decadenza, e il corpo esanime di Gesù, come seme che muore dal quale sorge la vita nuova. Nulla di più eucaristico di queste icone della passione, nelle quali risplende il grande dono che Cristo ha fatto del suo corpo, spezzato per la vita del mondo e del suo sangue versato, condiviso tra i credenti, come bevanda di salvezza.

     Tra queste, in particolare l’icona di Cristo morto, steso sul lenzuolo, nella classica posizione sindonica: O Nynphos. Questa gode di una valenza tutta particolare per la sua lettura “eucaristico/sponsale” della stessa: rappresenta il Cristo dopo il suo grande travaglio, che finalmente riposa sereno nel sonno della morte, ma che già è preludio di resurrezione. Dopo la “grande fatica”, il Cristo, riposa come su un talamo sponsale, dopo aver dato tutto sé stesso agli uomini e specialmente a chi si sarebbe, nel tempo, unito a lui, grazie alla Fede: la sua Chiesa, la sposa, che, come Cristo, è chiamata a donarsi a sua volta, ad entrare in questo talamo nuziale di dolore e amore (come compartecipazione alle sue sofferenze) e ad unirsi intimamente al suo Sposo. Così l’icona del Nynphios diventa l’icona dell’amore ferito, che attende di essere consolato, ricambiato, adorato, e che aspetta in un “silente sepolcro divino” (il tabernacolo) la visita della donna/sposa (la Chiesa, nei suoi fedeli), che arde dal desiderio di incontrarlo, per ungerlo con gli aromi della sua preghiera e che, andandogli incontro, lo scopre risorto e pieno di vita nuova: “Rabbunì!”. Proprio come il Pane eucaristico, che silenzioso, inerme, quasi apparentemente senza vita, rinchiuso per amore nel tabernacolo, si rivela, nell’adorazione vivo, presente e risorto e operante. 

     Un’altra lettura eucaristica di questa bellissima icona: è il “banchetto” (escatologico-nuziale), il corpo di Cristo è steso come su di una tovaglia da banchetto, Egli diventa il nuovo cibo, la nuova vittima che morendo però, diventa vita per chiunque si nutre di Lui.

 

 

PER EVITARE OGNI BANALIZZAZIONE:

IL CUORE DEL MISTERO

 

     È evidente che non si tratta quindi di solite banalizzazioni simboliche, che rimangono solo in superfice (Cristo morto = tomba funebre), niente di tutto ciò, non potremmo essere mai più lontani di così, dal senso autentico di queste scelte simboliche molto profonde.

     La conoscenza adorante del Mistero, ci convince di come queste siano icone perfette per la loro collocazione, nei luoghi dove si celebra il Mistero eucaristico, soprattutto l’altare, e il tabernacolo, luoghi che sono in diretto contatto con quel Corpo spezzato donato, morto e risorto, non solo morto, né solo risorto, ma morto e risorto insieme. Se il popolo cristiano si dovesse scandalizzare, o se dovesse mai chiedersi il perché di questa scelta, i pastori non dovrebbero altrimenti esitare, ad illuminarli prontamente, alla luce del Mistero! Sarebbe questo il sintomo, di una ignoranza da parte del popolo, sperando che non appartenga anche ai pastori, che non deve rimanere tale: “svegliati o tu che dormi, risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà!”(Ef 5,14); ne ci possiamo più permettere di banalizzare ulteriormente i segni della nostra fede per amore dell’imperturbabilità di un cristianesimo comodo, che non vuole più essere provocato e scomodato dalla morte di Cristo, dal suo sacrificio, dalla sua potente attrattiva: “quando sarò innalzato attirerò tutti a me”(Gv 12, 32), che si rifugia dietro i segni della gloria, per non passare dai segni del dolore, quasi come se questi due si potessero vivere indipendentemente l’uno dall’altro. Dovremmo rimuovere così, ogni croce dai nostri altari e dai nostri tabernacoli, poiché sarebbero “segni di morte” su “luoghi di vita” (?), ma sappiamo benissimo che questa logica è completamente erronea. Dunque, non guardiamo la morte di Cristo con la banalità del mondo, ma guardiamola con gli occhi degli innamorati che dicono con Paolo: “l’unico mio vanto è nella croce di Cristo” (Gal 6 14), e ancora “stoltezza per i pagani, scandalo per i Giudei, ma per chi crede è potenza, sapienza di Dio” (1Cor 1,23).

 

 

CULTURA: RICCHEZZA O LIMITE?

 

     Il problema culturale, che pare creare un po’ di difficoltà nell’accogliere elementi culturali diversi dai nostri, può essere superato. Nella fede, infatti, il primato è del Mistero, lo sappiamo. La cultura di ogni popolo evangelizzato riceve la sua forma da questo. Tra i cristiani d’oriente e i cristiani d’occidente gli sviluppi culturali, operati dal seme della fede nell’humus sul quale è caduto, appaiono inconciliabili solo se visti in prospettiva uniformante e asettica, del tutto inumana. Il problema allora verte sugli orientamenti pastorali che considerano necessariamente il contesto culturale di un popolo, ma lo rendono anche aperto e capace di ricevere il Mistero, che si dispiega nei secoli davanti ad ogni popolo.

     Una pastorale di preparazione, attrazione e tensione al Mistero è la scelta più naturale di pastori, che intendono portare Cristo ad un popolo che deve essere preparato a riceverlo, riducendo i limiti culturali che sono di ostacolo.

     Non dobbiamo dimenticarci che oggi, lo scambio interculturale è più che mai attivo e vissuto dai più, per cui i linguaggi tipici di una cultura, sono già in circolazione e vengono già condivisi ed interiorizzati da altri interlocutori di culture diverse. Questa è una opportunità da non perdere assolutamente, perché mentre noi ci chiediamo se conviene o no veicolare messaggi attraverso linguaggi culturali diversi, la comunicazione mondiale già lo fa. Come non segnalare la questione che verte sul crocifisso ai giorni nostri? Questo segno tanto amato da generazioni di cristiani e contemplato con rispetto e devozione, oggi comincia a non essere più compreso nella cultura che viene a cambiare, soprattutto tra i giovani. Ne sono testimonianza le polemiche circa i crocifissi nei locali pubblici e scolastici, o i post sui social-media, che mostrano come il sentire ed il percepire questi segni e simboli, da una parte non indifferente della società, ora rasenta il rifiuto o, in alcuni casi, anche la ripugnanza. Questo ci dice come il cambiamento generazionale muova la cultura, riformandola con una velocità non indifferente. Se la cultura non venisse nutrita dal Mistero di Cristo, essa continuerebbe ad essere nutrita da ben altre cose, che poco hanno a che fare con Cristo. Non sia dunque una cultura in continua evoluzione il limite del Mistero: dovendo scegliere, in ambito pastorale tra il custodire una cultura o custodire il Mistero incarnandolo di volta in volta, perché questo diventi la nostra cultura, penso che la seconda opzione sia quella che dovrebbe avere un peso maggiore nei nostri orientamenti pastorali.

 

  

UNA PROSPETTIVA ECUMENICA

 

     Oggi più che ieri, il dialogo ecumenico intrapreso dagli ultimi pontefici, anche con una certa insistenza, soprattutto con le chiese ortodosse, è illuminante e provvidenziale.

     A tutti coloro che seguono con attenzione i movimenti pastorali di papa Francesco, è noto l’affetto del papa per il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, segno questo di un progetto dello Spirito, intuibile anche dai desideri di unità e di incontro di molti cristiani che, se colto, diviene per il nostro tempo una grande prospettiva profetica.

     La ricchezza spirituale contenuta nello “scrigno” della Chiesa, che alla luce del Catechismo della Chiesa Cattolica, scopriamo più estesa degli esclusivi nomi dei battezzati, segnalati dai nostri registri parrocchiali, (cfr. CCC, n° 838) e che quindi trascende le singole confessioni cristiane e si scopre più ampia ed inclusiva per virtù del battesimo, deve poterci suscitare interesse e muoverci ad attingere a piene mani a questo immenso tesoro, datoci da Cristo e dai suoi apostoli e discepoli, attraverso l’annuncio del Vangelo,  che con il tempo si è arricchito, nella sua intelligenza, grazie allo Spirito.

     L’opportunità di questi “depositi” (liturgici, artistici, musicali, ecc.) non ci può sfuggire, perché potrebbe compromettere o ritardare la nostra crescita nella conoscenza del Signore Gesù, al quale costantemente tendiamo.

     Dovremmo imparare a educare lo sguardo, per riuscire a scorgere il “passaggio di Cristo nel mondo”, saperne riconoscere i frutti e avere il coraggio di coglierli.

     Ora, aprirsi alle confessioni cristiane vicine, in un dialogo privo di risentimenti storici, rimane un arricchimento e una collaborazione in vista della piena unità, se non altro ci abitua e ci educa a vedere l’alterità non come una presenza estranea ma come parte di noi, riducendo sempre di più la fatica di sentirci fratelli.

 

 

CONCLUSIONE

 

     Il Mistero di Cristo, dunque, illumina ormai da millenni il mondo, le culture, gli uomini. Dinamico e fecondo, è sempre lo stesso, ma si presenta agli uomini sempre nuovo ed originale. Cristo sposa l’umanità, che si unisce a lei e ne riporta per questo i segni del suo stesso dolore. È il Dio che celebra nel suo corpo, il suo matrimonio con una umanità, schiava e ferita dal peccato e per questo, viene “deturpato” da essa, ma quest’ultima, grazie a Lui, viene illuminata e divinizzata. Così, i segni del dolore di Gesù sul proprio corpo, divengono il sigillo del suo sposalizio. Come anello d’oro al dito dello sposo, le piaghe di Cristo, segnalano l’appartenenza dell’uomo a Dio e di Dio all’uomo. Sono la gloria della nostra natura umana, il sigillo della nostra salvezza. Contemplarle, è ricordarsi che non siamo spiritualmente nubili o celibi, ma siamo chiamati a sposare il Signore, che ci attira e ci invita nel suo talamo, per donarci il suo stesso corpo, che è il frutto maturo dell’Albero della vita (la croce).     

          Concludo con una frase meravigliosa tratta dal Cantico dei Cantici, letta in maniera speculare alla condizione di Cristo disteso nel suo letto sepolcrale (Ct 1,12), e al dono del Pane eucaristico (Ct 1,13): “…ma il re è nel suo talamo, il mio nardo diffonde il suo profumo, il mio sposo è per me come un ricettacolo di mirra, riposa sul mio petto…”.

 

 

 Sem. Filippo Emanuele Grillo.

 

Catanzaro: 18 novembre 2021

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